Costaripa: l’unicità di una vocazione spumantistica – Stile Mattia Vezzola

Di Mattia Vezzola

 

Nel 1972 durante il mio primo viaggio nella terra definita da Gianni Brera ‘fredda e umida del nord’ ho compreso il valore illuminante della simbiosi perfetta tra innovazione e tradizione; in quel momento ho capito quale avrebbe dovuto essere la direzione del mio primo passo per mettere la tecnologia al servizio dell’intuizione volta all’unicità della nostra vocazione spumantistica. Da allora l’obiettivo principale è stato quello di dar vita a un ‘metodo classico antico’, suadente, femminile per eleganza e armonia, raffinato e di soffice masticabilità, persistente e saporoso fino al quarto quarto del palato, con una effervescenza sottilissima quasi a ricordarti la setosità e la leggerezza di un inimitabile foulard di seta”. Sono realmente queste le sensazioni che si percepiscono quando si bevono i Rosé di Mattia, e non oso pensare che vi sia qualcuno, dopo aver assaggiato i suoi vini, capace di non condividere questo pensiero. Da parte mia non ho dubbi, ma, questa volta, vorrei andare oltre la riproposizione di alcuni flash sulla filosofia produttiva che ha distinto il lavoro di Mattia Vezzola in questi ultimi cinquant’anni. Pensavo, per l’appunto, di concatenare alcuni pensieri e raccontarvi un altro Mattia diverso da quello che conoscete, lontano da quelle “bolle” con le quali si identifica.

Ci provo, ma so già che non sarà una cosa semplice essendo non solo un professionista, ma anche un amico e un uomo di grande intelligenza e trasparenza intellettuale. Tutto si complica quando ci si addentra nei sentimenti e nella poliedrica visione che altri hanno del sistema spumantistico italiano come nel caso di Mattia. È difficile abbinare a quel suo carattere istrionico, che lo rende personaggio, qualcosa che risulti frutto di un’osservazione distaccata e super partes e non una amichevole piaggeria. So che cadrò in una cosa simile, spero che mi scuserete, giustificandomi con il fatto di aver sempre sostenuto che dietro ai grandi vini ci sono grandi vignaioli e quando questi collimano con delle grandi individualità dal pensiero illuminato, non resisto e mi lascio trasportare dalla passione. Mi relaziono volentieri con questi soggetti, dialogando di enologia, della cultura che alimenta il sistema viticolo, della vite o dei massimi sistemi che delineano le politiche agroalimentari, compresa quella industriale del vino, trovando il piacere di scivolare sulle idee, sui sogni, sulle vittorie e le sconfitte e sulle sorprese che regala la vita. Sono incontri magici, confronti e scontri dialettici che non avvengono se ho davanti dei cubetti di porfido, rigidamente compressi sulle proprie idee, ma con dei cubi di Rubik con una miriade di sfaccettature, tante da invogliarmi a interpretare e leggerne i colori.

Per loro l’impegno ha il valore di una stipula notarile redatta più verso sé stessi che verso gli altri; la loro volontà è perseveranza allo stato puro e il carburante quotidiano; le sfide sono delle scommesse da vincere usando l’orgoglio, ma quello positivo che non imbruttisce o rende stupidi, ma sa aggregare e focalizzare i risultati.

Ecco, se a tutto questo ci aggiungete la pacatezza dei modi, la positività, il gusto del buon vivere e una buona dose di ironia e sarcasmo incomincerete a mettere a fuoco chi è Mattia Vezzola. Frugando fra i ricordi e fra gli appunti, ho riportato alla mente quei momenti che ogni tanto ci concediamo da buoni amici, stando seduti con le gambe sotto un tavolo di qualche ristorante. Ecco, lì, le parole scorrono a fiumi, fra una bollicina e una risata. Di cosa parliamo? Di tutto. Parliamo di vino, di donne, di viaggi e delle amicizie comuni e di quelle che invece ci siamo bruciati per l’onesta schiettezza che contraddistingue entrambi. Tutto ruota in un poliedrico esercizio d’argomentazioni alle quali, francamente, non saprei dare un ordine. Da parte mia, quando Matteo parla di vino, come potete capire, taccio. Non potrei fare diversamente davanti a un uomo pluridecorato sul campo che ha saputo identificarsi con la viticoltura gardesana, meglio di chiunque altro, rappresentando il paradosso fra il territorio e la sua maniacale applicazione nel proporre una viticoltura vocata alla produzione di grandi Rosé.

Lo “spumante”, e la stabilità nell’effervescenza, hanno regole precise che si manifestano in modo eclatante nella scienza, conoscenza e nel lavoro che lui svolge in questo areale della Valtenesi fra suoli morenici composti da ben 64 tipologie di terre. È la sua morbosa ricerca di questi elementi e la capacità di farli interagire e porli in equilibrio fra loro a fare la differenza fra il Rosé e un Rosé. Se lo conoscete appena un po’, sapete che quando parla di queste cose si accende d’entusiasmo e incomincia a viaggiare attraversando, con dei salti temporali, la storia dei suoi cinquant’anni. Mezzo secolo segnato, in modo positivo, dalla sua continua evoluzione viticola ed enologica, avvalorando la mia tesi che noi italiani, non siamo solo bravi, ma bravissimi, essendo stati capaci di guadagnarci, in poco più di sei decenni, prestigio e considerazione internazionale nei mercati, attraverso la qualità oggettiva del vino che produciamo.

Un prestigio che qualche volta rischia di “annacquarsi” con il cambio generazionale che molte aziende sono costrette ad affrontare; rischio che non tocca Costaripa, perché entrando e vedere come Nicol e Gherardo, i suoi due figli, si sono integrati nel sistema aziendale, mi rincuoro. Lui non lo dà a vedere e, a prescindere da quanto ne dica o dai borbottii e rimbrotti che ogni tanto corrono fra le parti, ritengo che sia orgoglioso, da padre, nel vedere come l’educazione profusa per far comprendere il valore della storia e della terra ha dato i suoi frutti. Come ripete Mattia “A chi hai il privilegio di mettere le mani su un’uva che viene prodotta da cinqaunt’anni, dico che il Padre Eterno dà due possibilità: o fare un grande vino, o morire prima di vendemmiare e questo sarà comunque meglio che limitarsi a fare del semplice vino”. Un brindisi e buon Rosé a tutti.